La Grammatica del dialetto granese
Ortografia e Fonetica

La grammatica inizia con l’ortografia e la fonetica e si vedono sin da subito le prime sostanziali peculiarità: la U si pronuncia molto stretta alla francese, il dittongo OU si pronuncia come la U italiana e il trittongo OEU si pronuncia come la EU francese. Un significato particolare lo ricopre la dieresi sulla lettera E (ë), che trasforma la lettera in muta o semimuta e quindi si pronuncia strettissima, quasi inesistente (es. spëssa, cioè spessa; fëtta, cioè fetta; mëssa, cioè messa).

La J alla fine di parola o tra due vocali assume il suono di MOUILLE francese (es. tajà, cioè tagliato; famija, cioè famiglia; paj, cioè pelo). Quando è inserita tra C o G e le vocali A, O, U, il dittongo OU e il trittongo OEU rende queste consonanti dolci (es. cjod, cioè chiodo; cjouchin, cioè campanello).

La N raddoppiata alla fine di parola mantiene il suono della N in italiano (es. ann, cioè anno), mentre se non è raddoppiata assume il suono nasale (es. adman, cioè domani; advan, cioè davanti). Se è seguita dal trattino (-) ed una vocale indica una piccola pausa e una sorta di sospensione di pronuncia tra la N e la vocale che segue (es. Gran-a, cioè Grana; boun-a, cioè buona).

La M seguita da B o P si pronuncia con suono nasale e un leggerissimo rallentamento nella pronuncia (es. gàmbe, cioè gambe; esempe, cioè esempio).

La S può avere due suoni ben distinti: dolce ed aspro. È sempre dolce ad inizio di parola o all’interno quando è seguita da B,D,G,L,M,N,V (es. sbougè, cioè smuovere; disné, cioè pranzo). È ancora dolce quando è tra due vocali in centro di parola (es. roeusa, cioè rosa; cise, cioè cece), oppure quando non è raddoppiata a fine parola (es. nàs, cioè naso; paradis, cioè paradiso).

La S ha suono aspro quando è raddoppiata sia in centro che a fine parola (es. bàssa, cioè bassa; fiss, cioè fisso); quando è preceduta da una consonante (es. sensa, cioè senza; poursal, cioè porcello); quando si trova a inizio di parola ed è seguita da una vocale (es. supa, cioè zuppa; souta, cioè sotto); e, infine, quando è seguita dalle consonanti C,F,P,Q e T (es. scapè, cioè scappare; strà, cioè strada).

La V si pronuncia come la U italiana quando si trova a fine parola (es. pàv, cioè paura; cjàv, cioè chiave) e anche quando a centro parola segue la U o il dittongo OU (es. spuva, cioè sputa; trouvà, cioè trovato).

La Z ha sempre suono dolce e quindi mai come in italiano (es. mànza, cioè manza; parzoun, cioè prigione).

La C e la G seguono le regole di pronuncia della lingua italiana e cioè sono dolci se precedono le vocali E ed I e sono dure se precedono le vocali A,O,U, il dittongo OU e il trittongo OEU (es. civil, cioè civile; coeuje, cioè cogliere) e come in italiano assumono il suono duro se poste davanti alle lettere E ed I, ma con l’intromissione della H (es. slounghè, cioè allungare).

Se queste due consonanti sono raddoppiate in fine di parola prendono il suono dolce (es. fàcc, cioè fatto; tucc, cioè tutti), mentre se sono seguite dalla H si pronunciano dure (es. pàgh, cioè pago; boeugg, cioè buco).

La combinazione delle consonanti G,N assume il suono molle come in italiano nella parola SOGNO (es. borgno, cioè cieco; signàl, cioè segnale). Le stesse consonanti separate dal trattino (-) mantengono i suoni separati delle due lettere, con la G dura se scritta semplice e dolce se raddoppiata (es. vëg-no, cioè vederne; regg-no, cioè reggine). Le stesse regole valgono per le consonanti G,L (es. slàrg-lo, cioè allargalo; pogg-lo, cioè poggialo).

L’apostrofo nel dialetto granese è importantissimo in quanto elimina, per la pronuncia, le vocali e a volte anche le consonanti (es. che am an facc = ch’m an facc, cioè che mi hanno fatto; se te at àj = s’t aj, cioè se tu hai). Soprattutto elimina le vocali nelle particelle pronominali, inesistenti in italiano, ma diffuse nel dialetto di Grana, (es. del verbo avej (avere): me aj oeu = me ‘j oeu, cioè io ho; noui aj oumma = noui ‘j oumma, cioè noi abbiamo). Qualora la particella pronominale A sia presente da sola, può essere eliminata senza apostrofo (es. del verbo fe’ (fare): me a fass = me fass, cioè io faccio; nouj a foumma = noui foumma, cioè noi facciamo).

L’accento può essere tonico, nel qual caso occorre dare intensità alla voce sulla vocale di una determinata sillaba (es. sità, cioè città; rùse, cioè litigare), oppure fonico, e in questo caso, pur coincidendo con quello tonico, provoca un cambiamento di suono della vocale su cui è posato (es. bàl, cioè ballo). Da segnalare che la dieresi sulla E (ë) funge da accento fonico.

L’accento può cadere sull’ultima, penultima e terzultima sillaba di una parola e allora avremo una parola tronca, piana o sdrucciola.

Se una parola tronca (l’accento cade sull’ultima sillaba) termina con una vocale l’accento va sempre segnato (es. parlà, cioè parlato; sartoù, cioè sarto), mentre va omesso se termina con una consonante. L’accento va sempre messo quando questo sia fonico (es. ouspidàl, cioè ospedale; arcjàm, cioè richiamo).

Nelle parole piane (l’accento cade sulla penultima sillaba) terminanti con una vocale l’accento non va segnato (es. bala, cioè bella; coeuse, cioè cuocere), mentre se terminano con una consonante va sempre messo (es. sìmboul, cioè simbolo; làdar, cioè ladro). Qualora venga messo l’accento su una parola piana terminante con una vocale si mette l’accento, questo è fonico e cambia il suono della vocale su cui poggia (es. bàte, cioè battere; ràn-e, cioè rane).

Nelle parole sdrucciole (l’accento cade sulla terzultima sillaba) se l’accento cade su una A questo diventa fonico e cambia quindi suono alla vocale (es. gramàtica, cioè grammatica). L’accento sulla E non cambia il suono alla vocale, a meno che non sia una dieresi (ë) , nel qual caso, come si è già visto, la E diventa semimuta e si pronuncia strettissima, quasi inesistente (es. règoula, cioè regola).

L’accento sulle altre vocali, sul dittongo OU e sul trittongo OEU non fa cambiare la pronuncia (es. fìcatla, cioè ficcatela; gòundoula, cioè gondola).

L’accento viene anche usato su parole monosillabe per dare un significato diverso (es. la, inteso come articolo, e là, inteso come avverbio; fra, inteso con congiunzione, e frà, inteso come frate o inferriata). Ad esempio proprio la parola “frà” assume il diverso significato a seconda dell’articolo usato (es. al frà, cioè il frate, e la frà, cioè l’inferriata), oppure dal verbo usato (es. coul frà al è, cioè quel frate è, e coul frà aj en, cioè quelle inferriate sono). 

Ci sono infine gli accenti fonici sulle parole monosillabe terminanti con una consonante che cambiano il significato alle parole stesse (es. bal, cioè bello, e bàl, cioè ballo; san, cioè sano, e sàn, cioè santo).